mercoledì 17 agosto 2022

Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (f1)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  C a t a n z a r o  (2 0 0 6)  •  L e  f o r m i c h e  d e l l a  f i s i c a  •

«Negli ultimi anni stiamo assistendo dal vivo alla nascita di un sistema complesso macroscopico — spiega Guido Caldarelli, ricercatore dell’Isc —. Si tratta di internet, un enorme laboratorio per studiare cosa succede quando una miriade di agenti entra in interazione». I creatori di internet appartengono alla generazione di Woodstock e la loro filosofia ha lasciato una traccia profonda nel funzionamento della rete: aperta, software di dominio pubblico, costi di accesso limitati, libertà di espressione e apertura alla innovazione. «Al contrario di altre infrastrutture, come la rete elettrica o quella stradale, né internet né il world wide web sono stati progettati dall’alto — prosegue Caldarelli —. Finora, non è stata creata nessuna autorità centralizzata che stabilisca la struttura fisica della rete o il suo contenuto. Tutto è stato lasciato nelle mani degli utenti». Negli ultimi anni, una parte degli studiosi di sistemi complessi si è dedicato alle reti. Non solo internet, ma anche le reti neuronali, le reti di regolazione genetica, le reti di interazioni fra le specie di un ecosistema o persino le reti di relazioni sociali professionali o sessuali fra individui, quelle su cui si diffondono “epidemie” di malattie o di idee. «Forse l’idea di rete è il paradigma dei sistemi complessi — conclude Caldarelli — lo strumento che ci permette di focalizzare l’attenzione sulla struttura delle connessioni e l’architettura generale dei sistemi, piuttosto che sulle singole componenti».

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Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (e1)

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«La complessità dell’occhio o della cellula non si può spiegare senza l’intervento di un progetto intelligente». Tesi come queste sono tipiche dei sostenitori dell’intelligent design [sic!] — la forma attuale del creazionismo — come Michael Behe e William Dembski. I fenomeni di autorganizzazione nei sistemi viventi sono stati utilizzati strumentalmente per postulare la presenza di un elemento sovrannaturale nella vita. In realtà, è vero che nei sistemi complessi agisce un elemento “esterno”, ma non è niente di “mistico”. I sistemi complessi sono sempre “aperti”. È grazie a questa energia che i sistemi possono mantenere un comportamento ordinato. Un sistema isolato raggiunge rapidamente una situazione di equilibrio, priva di complessità. Perché sia complesso, è necessario che venga costantemente perturbato dall’esterno, e portato fuori dall’equilibrio.

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Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (d1)

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Il 13 marzo 2004, due giorni dopo gli attentati di Madrid, sms rimbalzano in tutta la Spagna. Chiamano a protestare contro la gestione della crisi del governo. La sera, le piazze di tutto il paese si riempiono di manifestanti. L’indomani, il risultato previsto delle elezioni generali viene capovolto. Nessun partito ha convocato la protesta. Una mobilitazione che normalmente richiederebbe un’accurata preparazione si genera spontaneamente, grazie all’interazione fra i cittadini. La società umana mostra una caratteristica fondamentale della complessità: l’autorganizzazione. Questo fenomeno appare anche in altre società animali. Andrea Cavagna e Irene Giardina, dell’Università di Roma La Sapienza, hanno elaborato un modello del volo degli uccelli. «Nessuno guida uno stormo di uccelli migratori. Ogni individuo interagisce solo con i suoi vicini. Eppure, gli uccelli sono in grado di formare un gruppo compatto». Alessandro Vespingani, che studia l’autorganizzazione all’Università dell’Indiana, spiega: «I sistemi complessi sono capaci di generare comportamenti collettivi ordinati a partire dal caos, ma quello che li rende così speciali è che questi comportamenti macroscopici coerenti non vengono imposti dall’alto. Al contrario, vengono generati dal basso, dall’azione microscopica degli stessi elementi del sistema».

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Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (c1-2)

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Quando mettiamo una pentola sul fuoco, per qualche minuto, l’acqua non cambia di aspetto. Poi, improvvisamente, appare uno scenario movimentato di acqua in ebollizione e vapore. La materia non è cambiata: le molecole di H2O sono identiche, sia nello stato di liquido che in quello di vapore. Però, riscaldando l’acqua, l’abbiamo portata a un “punto critico”, nel quale mostra un comportamento macroscopicamente diverso. È lo studio di fenomeni come questo che ha portato i fisici a dedicarsi ai sistemi complessi. Tutta la materia è costituita da atomi. Ma la varietà di materiali “esotici” che si possono realizzare a partire da questi pochi ingredienti è enorme: superconduttori, superfluidi, materiali porosi, viscosi, vetrosi, granulari. Da anni, la fisica cerca di capire quali sono le condizioni che portano la materia ai “punti critici” nei quali appaiono questi stati.

L’approccio tradizionale è quello di cercare di ridurre le proprietà della materia a quelle dei suoi costituenti elementari. All’inizio del Novecento, il fisico e premio Nobel Paul Dirac afferma sprezzantemente che, note le proprietà degli atomi, «tutto il resto è chimica». A distanza di un secolo, bisogna dargli torto. «I superconduttori, ad esempio, sono tutt’oggi un mistero, sebbene le proprietà degli atomi che costituiscono questi materiali siano ben conosciute», spiega Emmanuele Cappelluti, ricercatore dell’Isc. «È ora di abbandonare il riduzionismo tradizionale», conclude Pietronero.

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Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (b1)

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Una formica isolata è capace di pochi, semplici comportamenti. Eppure una colonia di formiche può costruire nidi dall’architettura intricata, dividersi il lavoro ed elaborare strategie per procurarsi il cibo. «Le società d’insetti mostrano abilità collettive stupefacenti, sebbene gli individui che le compongono non possiedano l’“intelligenza” necessaria per lo svolgimento di questi compiti» — spiegano Rita Cervo e Stefano Turillazzi, studiosi del comportamento animale dell’Università di Firenze. Un gruppo di formiche è un esempio perfetto di sistema complesso. «La nostra ricerca si focalizza sull’emergere di proprietà collettive in sistemi con un gran numero di elementi che interagiscono fra loro», spiega Pietronero. «Chiamiamo questo fenomeno “emergenza”». Il punto-chiave è che questi comportamenti collettivi non si possono spiegare a partire dalle proprietà individuali di ciascuno. Un elemento isolato può essere semplice come un insetto. Ma quando gli elementi in interazione sono molti, appaiono proprietà imprevedibili. «La cellula è costituita da un gran numero di atomi, molecole, geni — spiega Luigi Luisi, coordinatore del progetto “Minimal cell”, per la simulazione di cellule artificiali —. Ma nessuno di questi elementi è sufficiente da solo perché emerga la vita: è necessaria l’interazione».

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Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (a1)

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Colonie d’insetti, stormi di uccelli, reti tecnologiche: la fisica contemporanea si dedica a temi molto diversi dai pendoli oscillanti e dalle spire percorse da corrente dei libri di scuola. È il trionfo della “scienza della complessità”, una branca della fisica aperta all’interdisciplinarietà, che dagli anni Ottanta a oggi ha moltiplicato il numero dei suoi seguaci. Lo scorso anno, il Consiglio nazionale delle ricerche ha creato l’Istituto dei sistemi complessi (Isc) che svolgerà un ruolo da protagonista in Statphys23, la conferenza mondiale di fisica che si svolgerà nel 2007 a Genova. «Il Novecento è stato il secolo della meccanica quantistica. Questo sarà il secolo della complessità». Questa era la profezia di Stephen Hawking, nel gennaio del 2000. Luciano Pietronero, dell’Isc, precisa: «La nostra non è una “nuova scienza”, ma un cambio di orientamento nella forma mentis degli scienziati». Ma quali sono le idee-guida di questo cambio di mentalità?

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Left (2006, n. 10) • Le formiche della fisica (0)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  C a t a n z a r o  (2 0 0 6)  •  L e  f o r m i c h e  d e l l a  f i s i c a  •

Le formiche della fisica


Cultura & Scienza

Un solo insetto ha poche capacità. Perché, quando sono milioni, riescono a fare cose incredibili? Lo studio dei sistemi complessi prova a dare una risposta

Luciano Pietronero: «La nostra non è una nuova scienza, ma un cambio di orientamento nella forma mentis degli scienziati»

In basso, formiche meccaniche costruite nel laboratorio di Marco Dorigo, a Bruxelles

di Michele Catanzaro
Left n. 10 — 17/03/2006 (venerdì 17 marzo 2006), pp. 68-69.

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mercoledì 10 agosto 2022

Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (g1-2)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e r t e l l o  (2 0 0 6)  •  O l t r e  i l  v e l o  •

Morto il Profeta, alla guida della comunità islamica venne posto dapprima Abu Bakr, padre della seconda prediletta moglie di Maometto, Aisha, e poi Umar ibn al-Khattab. Il suo califfato fu determinante per l’islam, perché promulgò diverse disposizioni civili, penali e religiose che rimarranno inalterate in gran parte dei paesi islamici fino ai giorni nostri. Fu lui, per esempio, ad introdurre la lapidazione per l’adulterio.

Gli elementi di autonomia presenti nel periodo della ‹Jahilia› [sic!] spariscono e la trasformazione in una società patriarcale si compie definitivamente. Nell’epoca Omayyade e Abasside, i califfi restrinsero via via gli spazi a disposizione, legittimando le loro posizioni con il ricorso a presunti “detti e fatti” del Profeta tramandati di bocca in bocca per secoli. Sempre sulla base di queste testimonianze si arrivò con il tempo a compilare libri come quello scritto nel XIII secolo dal teologo Ibn Taimiya, dal titolo ‹Il velo della donna e il modo in cui si deve vestire per la preghiera›: un testo che è la quintessenza della misoginia, una visione che ha avuto fortuna nel mondo arabo, indipendentemente dalle contraddizioni con il Corano in cui Allah si rivolge direttamente «ai musulmani e alle musulmane, ai credenti e alle credenti, ai devoti e alle devote» (Corano XXXIII, 35).

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (f1)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e r t e l l o  (2 0 0 6)  •  O l t r e  i l  v e l o  •

Come i musulmani avevano bene appreso dalle popolazioni con cui erano entrati in contatto, una donna col velo era una donna che dichiarava la sua appartenenza, si portava dietro la sua casa e la sua famiglia, era una donna che si sottometteva. Toccarla era peccato. Le pressioni da parte degli uomini su Maometto perché prendesse posizione, si fecero sempre più forti. Di fronte a una situazione che avrebbe richiesto più tempo per essere risolta, messo alle strette dai suoi uomini che gli chiedevano di scegliere, bisognoso di ricompattare la comunità per affrontare la guerra contro i meccani, Maometto scese a patti e accolse le istanze delle fazioni maschili, capeggiate da Umar. Si arriva così agli altri versetti del Corano in cui compare lo ‹hijab›, questa volta inteso esplicitamente come indumento, come “velo”: «E di’ alle credenti di abbassare i loro sguardi ed essere caste e di non mostrare, dei loro ornamenti, se non quello che appare; di lasciar il loro velo fin sul petto e non mostrare i loro ornamenti ad altri che ai loro mariti, ai loro padri, ai padri dei loro mariti, ai figli…» (Corano, XXIV, 31). Le prime a subire il peso di queste costrizioni furono proprio le mogli del Profeta, tanto che l’espressione “prendere il velo” significa anche diventare “una legittima moglie di Maometto”, ma poi l’uso si diffuse e si estese a tutte le donne musulmane non schiave.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (e2)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e r t e l l o  (2 0 0 6)  •  O l t r e  i l  v e l o  •

La città era cinta da un fossato che Maometto stesso aveva ordinato di scavare, per impedirne la presa, ma dentro regnavano confusione e incertezza. In quel periodo era d’uso che le donne venissero rapite, che si abusasse di loro. In strada esisteva un altro codice etico: lì, il reato di ‹zina›, tradimento o adulterio, poteva avvenire; lì, il corpo della donna era ‹‘aoura›, nudità, elemento vulnerabile senza difesa. Perfino le mogli del Profeta venivano accostate, c’era chi pensava di poterle sposare una volta morto Maometto, e osava parlarne al Profeta, osava addirittura sfiorare loro la mano. Quasi fossero donne come le altre. L’introduzione del velo si fa, per la fazione maschilista, sempre più urgente, non tanto per gestire un problema di ordine pubblico, ma soprattutto per ricondurre le donne alla ragione, per sedare quella voglia di autonomia che con sfacciataggine alcune di esse, capeggiate da Umm Salama, sesta moglie di Maometto, esprimevano, per fiaccare la loro volontà di partecipare a tutte le sfere della vita sociale e di condividere con gli uomini oneri, onori e perfino bottini di guerra.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (e1)

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La sura XXXIII, ‹I coalizzati›, di cui il versetto citato all’inizio fa parte, apparentemente non ha nulla a che vedere con donne, veli e matrimoni; l’argomento è politico, guerresco persino, poiché racconta lungamente l’assedio di Medina da parte dei meccani che si concluse positivamente per Maometto ma che gli costò parecchi uomini e sacrifici, in una situazione di crescente sfiducia nei suoi confronti. Per la prima volta, dacché aveva lasciato la Mecca e aveva fatto ingresso a Medina come riconosciuto profeta, Maometto si trovava in una posizione di debolezza: cresceva il numero degli Ipocriti “dal cuore malato”, come venivano chiamati i credenti più tiepidi, opportunisti politici, a volte apertamente ostili, poco persuasi dell’autorità di Maometto, del suo valore di capo militare.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (d1-2)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e r t e l l o  (2 0 0 6)  •  O l t r e  i l  v e l o  •

Profonde divergenze esistevano, per esempio, tra gli abitanti della Mecca e quelli di Medina. Quando negli anni successivi all’Egira i meccani si trasferirono a Medina per seguire Maometto, fu grande il loro sconcerto di fronte all’atteggiamento indipendente delle medinesi che tenevano testa ai loro mariti, prendevano decisioni autonomamente e non si lasciavano battere. Spesso il Profeta era costretto ad ascoltare i suoi fedeli che si lagnavano e lo interrogavano su quale atteggiamento tenere nei confronti delle loro mogli: è legittimo picchiarle? Quali posizioni sono ammesse nell’amore?

«Inviato del cielo, tu accogli tutti presso di te, gli onesti come i perversi. Perché non imponi lo ‹hijab› alle madri dei credenti?», lo interrogò un giorno Umar ibn al-Khattab. Futuro califfo con il titolo di Principe dei credenti, soldato e fedele servitore di Maometto, coraggioso, giusto, onesto, pio, ma noto ai contemporanei per la brutalità con cui era solito trattare le sue mogli, Umar era il capo della fazione maschilista, tra i più accaniti sostenitori della necessità di introdurre l’uso del velo. Tutto ciò forse non avrebbe avuto importanza, se quelli non fossero stati per Maometto anni di inattesa difficoltà.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (c1)

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La misoginia in quella regione era così feroce che non ha senso parlare di quali diritti fossero negati: si discuteva se la donna fosse più simile a una cosa o a un individuo e, comunque, non le si riconosceva maggiore autonomia che a uno schiavo; serviva a scopi sessuali e riproduttivi; doveva assoluta obbedienza al marito — la professione di obbedienza doveva essere fatta regolarmente, ogni mattina, inginocchiandosi per nove volte davanti al consorte che ne disponeva come meglio credeva; veniva ereditata e poteva essere prestata. I figli appartenevano al marito: per gli uomini sassanidi avere eredi maschi era un obbligo. Infine, sebbene le donne ereditassero, erano i mariti gli unici usufruttuari del patrimonio. Nella stessa epoca, a Bisanzio, le donne di nobili origini erano solite indossare il velo nei luoghi pubblici, o dove fossero presenti uomini estranei, per distinguersi dalle schiave e dalle donne di altre religioni, vivevano segregate e protette da schiere di eunuchi, se uscivano dovevano essere accompagnate, si sposavano ancora bambine, il loro diritto di testimonianza era limitato a cose di cui avevano diretta competenza, come le nascite. Questo tipo di cultura aveva già cominciato a filtrare nell’Arabia del VI secolo, perché i contatti commerciali con questi paesi erano fitti, in particolare nei centri di grande passaggio come la Mecca. Si trattava però di una penetrazione non omogenea.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (…b1a)

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[⇐]  Il concetto di ‹zina›, di adulterio, di peccato, in quanto tale, era evidentemente superfluo: «Commette forse ‹zina› una donna libera?», chiese un giorno al Profeta una neoconvertita. A questa autonomia sessuale corrispondeva anche un diverso peso all’interno del clan: le donne potevano commerciare, andare in guerra, porsi come leader, anche spirituali, e avevano un maggior accesso alle risorse economiche della famiglia. Se questa è, grossomodo, la concezione della donna nel periodo preislamico o, come dicono i musulmani, nel periodo della ‹jahilia›, “dell’ignoranza”; se questo è il retroterra culturale da cui proviene il profeta dell’islam, che avrà inoltre verso le donne un atteggiamento personale di grande rispetto e profonda attenzione e tenerezza, decisamente diversa era, nello stesso periodo, la condizione della donna nelle aree limitrofe, nell’Impero bizantino e soprattutto in quello persiano-sassanide dell’Iran e dell’Iraq.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (b1…)

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Tranne una, Aisha, tutte le spose di Maometto erano vedove. Lo era anche la sua prima moglie, Kadija, una ricca mercante, di quindici anni più vecchia. È lei a chiederlo in sposo, qualche tempo dopo averlo assunto e avendo sperimentato con quale oculatezza e saggezza sapeva gestire il suo cospicuo patrimonio. Quello di Kadija non è il gesto di una stravagante: all’epoca le donne avevano una certa autonomia nella gestione della sessualità. La penisola araba del VI secolo, in cui nasce e vive metà dei suoi anni Maometto, era ancora caratterizzata, unica nell’intero Medio Oriente, da una cultura di tipo matrilineare e nomade. Esistevano diverse forme legittime di unione tra uomo e donna, anche legali contratti “temporanei”. Le donne, una volta sposate, continuavano a far parte del clan originario, in cui venivano accolti anche i figli; i mariti si recavano in visita alle mogli quando lo desideravano. La poligamia era ammessa, per entrambi i sessi. Le donne potevano divorziare e per farlo bastava un gesto semplice: ruotare la tenda in cui vivevano in modo che al suo arrivo lo sposo non trovasse più di fronte a sé l’ingresso, bensì il retro della tenda. Un ripudio, insomma.  [⇒]

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (a2-3)

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La ‹Sunna›, la raccolta dei detti e dei fatti del Profeta, racconta così il momento fatidico in cui Maometto pronunciò i versetti che fondarono l’istituto dell’‹hijab›: un termine importante nella cultura islamica, che si riferisce, genericamente, a qualcosa che separa, divide o protegge. Può trattarsi di un elemento architettonico, all’interno delle case o delle moschee, e in questo caso viene tradotto con “tenda”, “cortina” oppure può indicare il “velo”, quell’indumento che ancora oggi contraddistingue l’abbigliamento della donna musulmana praticante e che così tante e aspre polemiche ha acceso di recente.

Quelli citati sono versetti dall’apparenza innocua, eppure gravidi di conseguenze: lo ‹hijab› cade e separa per sempre gli spazi di vita intima da quelli della vita pubblica, il mondo delle donne da quello degli uomini. E un velo, quasi un’estensione di quella parete, coprirà il capo, e in alcuni casi il volto, delle donne. Questi però sono gli esiti di un processo piuttosto combattuto, che inizia nei primissimi anni di espansione dell’islam, e che vede contrapporsi apertamente due partiti, uno femminista e uno maschilista. Un processo che avrebbe potuto concludersi anche diversamente.

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (a1)

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Siamo nel quinto anno dell’Egira (627), la cerimonia del matrimonio tra Maometto e Zaynad è appena terminata. Il Profeta è ansioso di rimanere solo con la sua quinta moglie, ma alcuni invitati non accennano ad andarsene. L’inviato di Allah pazienta, cammina su e giù per le sue stanze, va a parlare con le altre mogli, ma quando torna i tre ospiti sono ancora lì. Poi, finalmente, si decidono. Appena lasciano la sala, Maometto, fermo sulla soglia, recita: «O credenti, non entrate nella casa del Profeta, a meno che non siate invitati per un pasto e dopo aver atteso che il pasto sia pronto. Quando poi siete invitati entrate; e dopo aver mangiato andatevene senza cercare di rimanere a chiacchierare familiarmente. Ciò è offensivo per il Profeta, ma ha vergogna di dirlo a voi, mentre Allah non ha vergogna della verità. Quando chiedete alle mogli un qualche oggetto chiedetelo da dietro una “cortina”: ciò è più puro per i vostri cuori e i loro».

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Left (2006, n. 8) • Oltre il velo (0)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e r t e l l o  (2 0 0 6)  •  O l t r e  i l  v e l o  •

Oltre il velo


Cultura & Scienza — Storia

L’istituto dello hijab, che impone alle donne di coprirsi il capo e il volto, separa nettamente il loro mondo da quello degli uomini

È una storia lunga e combattuta, iniziata nel VI secolo

di Agnese Bertello
foto di Abbas
Left n. 8 — 3/3/2006 (venerdì 3 marzo 2006), pp. 78-80.

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lunedì 1 agosto 2022

Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (…4a)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e n i g n i  (2 0 0 6)  •  L’ i m m a g i n e  d e l l’ i s l a m  •

[⇐]  Questa ricostruzione, oltre a essere palesemente errata dal punto di vista storico (basti ricordare che l’ostilità nei confronti delle immagini si afferma in uno dei periodi di maggior fioritura culturale dell’islam, e che se a tale ostilità si è talvolta derogato nella pratica, nessun musulmano, per quanto “progressista” ha mai esplicitamente teorizzato la liceità delle immagini in campo religioso), è del tutto priva di fondamento anche per ciò che concerne la storia dell’arte: lungi dal costituire «un blocco su tutta la creazione artistica», il particolare rapporto dell’islam con l’iconografia ha invece rappresentato uno stimolo straordinario alla nascita di forme artistiche originali quali la calligrafia o l’arabesco, nel quadro di una contrapposizione fra spazio pubblico, rigorosamente non figurativo, e spazio privato, dove le immagini possono invece dispiegarsi liberamente. Nel tentativo di autoaccreditarsi come autorevole esponente dell’islam “moderato”, in strenua lotta contro ogni fondamentalismo, Allam tende purtroppo a ingabbiare la millenaria vicenda islamica in schemi rozzi e prevedibili che poco hanno a che fare con l’autentica ricerca storica, e si avvicinano pericolosamente alla propaganda. Se si vuole lavorare per la pace e la comprensione reciproca è invece necessario andare oltre le facili banalizzazioni e riscoprire le sfumature e le complessità: si tratta di un compito arduo, ma, come soleva dire il profeta Muhammad, è nostro dovere seguire la via della scienza, dovessimo per questo andare fino in Cina.

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Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (4…)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e n i g n i  (2 0 0 6)  •  L’ i m m a g i n e  d e l l’ i s l a m  •

Come è evidente anche da questa breve sintesi, le vicende relative al rapporto dell’islam con la sfera delle immagini sono dunque assai complesse e in larga misura non riconducibili alle categorie del pensiero artistico occidentale. Nei nostri mezzi di comunicazione di massa, che si sono ampiamente occupati del problema in occasione dell’‹affaire› delle vignette, si è invece imposta una lettura semplicistica e fuorviante, tutta imperniata su un’astratta — e del tutto incongrua — polarizzazione tra islam «massimalista» e «progressista». Tale visione è perfettamente compendiata nell’articolo pubblicato su ‹la Repubblica› del 3 febbraio 2006 da Khaled Fouad Allam, il sociologo algerino che insieme all’altro Allam, Magdi, vicedirettore ‹ad personam› del ‹Corriere della Sera›, costituisce la principale “autorità” a cui è demandata la divulgazione di temi connessi al mondo islamico da parte dei maggiori organi di informazione italiani. Secondo l’autore, nella controversia sulle immagini una parte del mondo islamico avrebbe fatto prevalere «un’interpretazione massimalista, vietando anche la raffigurazione iconica del profeta, e indirettamente ponendo un blocco su tutta la creazione artistica nell’islam». E ancora: «Nei periodi di ripiegamento dell’islam o di irrigidimento delle società musulmane, tali questioni divengono facilmente anche questioni politiche».  [⇒]

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Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (…3a)

𝑳𝒆𝒇𝒕  •  B e n i g n i  (2 0 0 6)  •  L’ i m m a g i n e  d e l l’ i s l a m  •

[⇐]  In tali tradizioni l’atteggiamento nei confronti delle immagini è fortemente negativo: secondo al-Bukârî, curatore, attorno al IX secolo, di una monumentale silloge di “detti e fatti del profeta dell’islam”, Muhammad avrebbe espresso una ferma condanna della pittura, affermando che nel Giorno del giudizio gli artisti sarebbero stati puniti da Dio nel modo più severo, in quanto usurpatori della funzione creativa spettante appunto solo ed esclusivamente al Creatore. Il passo successivo è la formalizzazione del divieto assoluto di produrre o utilizzare immagini, perché «gli angeli non entreranno in una casa dove c’è un dipinto», e perché coloro che le creano «mentono contro Dio e sono suoi nemici». Questo divieto tradizionale non fu comunque sempre rispettato e i giuristi stessi escogitarono degli accomodamenti: in molte regioni del mondo musulmano sovrani e ministri amanti delle arti promossero la creazione di opere pittoriche di notevolissimo livello, un’eco delle quali si ritrova nelle splendide miniature che, soprattutto a partire dal X secolo, illustrano i manoscritti islamici in lingua araba, turca e persiana.

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• al_Bukari (al-Bukârî)

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Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (3…)

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Tuttavia, già nei primi decenni dell’VIII secolo si era verificato un importante episodio di iconoclastia islamica, provocato da un decreto del califfo omayyade Yazîd ibn ‘Abd al-Malik: dovette trattarsi di un provvedimento territorialmente limitato ed esplicitamente anti-cristiano, inquadrabile nel più vasto contesto delle teorie iconoclastiche elaborate in àmbito ebraico e bizantino. La vera svolta nell’atteggiamento islamico nei confronti dell’immagine si ha però con l’avvento della nuova dinastia che alla metà dell’VIII secolo sostituisce gli omayyadi alla guida dei musulmani: gli abbasidi. Costoro spostano la capitale dell’impero da Damasco alla Mesopotamia, dove fondano Bagdad, e rompono, sia dal punto di vista politico-amministrativo sia dal punto di vista artistico, con la tradizione ellenistico-romana, guardando piuttosto all’eredità persiana. In questo periodo prende forma quella grande opera di raccolta di tradizioni riguardanti Muhammad che costituiscono, insieme allo stesso Corano e al consenso della comunità, le fonti della teologia e della legge islamica.  [⇒]

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• Baghdad ≈ (Bagdad)

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Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (2)

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Nei primi secoli dell’islam esistevano infine numerosi racconti relativi alla diffusione delle immagini del profeta; in uno scritto sui «segni della profezia» dell’erudito musulmano Abû Bakr Ah’mad b. al-H’usayn al-Bayhaqî — attivo nella prima metà dell’XI secolo d.C. — al capitolo intitolato “Ciò che è noto riguardo all’immagine (‹s’ûrah›) del profeta Muhammad e a proposito delle immagini dei profeti che lo hanno preceduto in Siria” l’autore narra ad esempio di un mercante meccano contemporaneo del profeta che in un monastero di Bosra avrebbe avuto modo di vedere le immagini dipinte di Muhammad e di Abû Bakr, il primo califfo; e di un altro commerciante di Mecca, il quale, durante un viaggio in Siria, sarebbe stato condotto in una casa decorata da pitture, e avrebbe identificato fra esse l’immagine del profeta. Narrazioni come queste, se pure appartengono a quel particolare tipo di letteratura il cui scopo principale era di fornire ogni sorta di prove della missione profetica di Muhammad, sono comunque di notevole antichità e rivelano un mondo saturo di immagini a carattere religioso, facendo balenare la possibilità che raffigurazioni del profeta — ben attestate, in epoche più recenti, in molte regioni del mondo islamico — fossero presenti, in contesti di tipo privato, anche nel periodo iniziale dell’islam.

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• Abu_Bakr (Abû Bakr)

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Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (…1a)

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[⇐]  Solo un passo del libro sacro dell’islam lascia dei dubbi: «Astenetevi dalla contaminazione degli ‹awṯân› [orig.], astenetevi dal discorso mendace!» (XXII 30). Qui infatti non sappiamo con certezza se intendere il termine ‹awtân› come «immagini» o «idoli». In ogni caso, sarebbe inutile cercare nel Corano la interdizione delle immagini che troviamo invece nell’Antico Testamento (Deuteronomio V 8): «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù in cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a quelle cose e non le servirai». Nel Corano, inoltre, non v’è traccia di divieti nei riguardi delle rappresentazioni profane, e infatti nell’islam primitivo abbondano oggetti e ornamentazioni figurate: la tradizione ci parla di pittori che decoravano le case di Medina — la città in cui Muhammad si era rifugiato al momento dell’ègira (622 d.C.), facendone la sua capitale — e nell’epoca del califfato omayyade (661-750 d.C.) grandi cicli pittorici ornavano le sontuose residenze dei sovrani, quei “castelli del deserto” resi celebri dalle descrizioni di Lawrence d’Arabia nei ‹Sette pilastri della saggezza›; negli stessi palazzi gli archeologi hanno anche rinvenuto delle statue, ritraenti i califfi o forse i grandi personaggi della storia islamica. Fra i musulmani era diffusa anche l’arte del ritratto: le prime monete da loro coniate — che imitano i tipi persiani e bizantini — recavano infatti la figura del sovrano armato di spada.

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Left (2006, n. 7) • L’immagine dell’islam (1…)

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Le vignette satiriche sul profeta dell’islam comparse su alcuni quotidiani europei, oltre a suscitare in tutto il mondo il disgusto, la protesta e la rivolta di un gran numero di musulmani, hanno provocato in Occidente, come “effetto collaterale”, il riaccendersi della curiosità sul tema affascinante del ruolo e della liceità delle immagini nel mondo islamico. Ogni turista che abbia visitato delle moschee sa bene come esse siano assolutamente prive di immagini sacre, e come, in generale, non vi si trovino rappresentazioni di esseri viventi, e tuttavia, la consapevolezza di questa diffidenza per le immagini — che l’islam ha peraltro in comune con l’ebraismo — è spesso fonte di equivoci. Ad esempio, si ritiene comunemente che il divieto delle immagini sia connesso con lo “spirito semitico”, senza considerare che questo stesso “spirito” si è espresso nella creazione di grandi correnti artistiche ricche di rappresentazioni di esseri animati: si pensi all’arte assiro-babilonese, all’arte di Palmira e a quella dei Nabatei di Petra. L’avversione per le icone non è dunque una caratteristica dei popoli semitici: lo fu, tutt’al più, di una piccola parte, gli israeliti e, anche in questo caso, per un periodo limitato della loro storia. Un punto fondamentale è invece quale sia stata l’attitudine dell’islam primitivo, e soprattutto quella del profeta, rispetto ai monumenti figurati. In effetti, Muhammad non fu quel feroce iconoclasta dipinto dalla tradizione, e nel Corano non troviamo una chiara condanna delle immagini.  [⇒]

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L’immagine dell’islam


Cultura & Scienza — Storia

Usurpatori della funzione creativa del creatore. E dal IX secolo i ritratti vennero condannati. Ma nel mondo musulmano non è andata sempre così

Fonti antiche parlano di un mercante contemporaneo del profeta che in un monastero di Bosra avrebbe visto il volto dipinto di Muhammad

• Pittura tratta da un libro turco: Maometto cerca di convincere i musulmani ad attendere per l’attacco agli abitanti della Mecca

• Maometto appena nato tra le braccia della madre

• Maometto alla Kaba è attaccato dal pagano Quorashi abu Jahl

di Marco Di Branco
Left n. 7 — 24/2/2006 (venerdì 24 febbraio 2006), pp. 76-78.

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