I veri laici siamo noi
(scheda)
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Società – L’intervista
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Pace, diritti civili, il socialismo del futuro. Fausto Bertinotti lancia la sua sfida contro la precarietà: il nostro obiettivo è la centralità del lavoro stabile
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Rifiuto l’idea della catechizzazione. Nelle scuole si insegni la storia delle religioni
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•[A·0]•
I radicali hanno alzato la bandiera della laicità per far dimenticare l’appoggio alla guerra
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Roma, la manifestazione pacifista dello scorso 18 marzo.
A sinistra, il segretario di Rifondazione Comunista Fausto Bertinotti
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Il cardinale Camillo Ruini.
A destra, Daniele Capezzone
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di Luca Bonaccorsi e Marco Romani
Left n. 11 — 24/03/2006 (venerdì 24 marzo 2006), pp. 42-45.
•[A·1]•
Attaccato da destra e da sinistra. C’è chi lo accusa di eccessiva simpatia per i gruppi antagonisti. Chi, invece, gli rimprovera di aver abbandonato il terreno dei diritti civili e della laicità dello Stato e di essere diventato troppo “governista”. Ma Fausto Bertinotti non ci sta. Si difende e rilancia. La scorsa settimana, all’incontro della Sinistra europea, ha messo in discussione antichi tabù della tradizione comunista, dal concetto di classe a quello della centralità del lavoro: «Marx è necessario — ha detto —, ma non sufficiente». Come gli zapatisti il segretario di Rifondazione “cammina interrogandosi”, alla ricerca di nuove culture.
• La Rosa nel pugno sta facendo una campagna elettorale aggressiva sui temi della laicità dello Stato, della scuola pubblica, dei Pacs, temi classici della battaglia politica di Rifondazione. Vi sentite stretti all’angolo?
In realtà la tenaglia che si è stretta su di noi in questa strana campagna elettorale è un’altra. Da destra, attraverso la denuncia del rapporto di Rifondazione con i movimenti, mettono in discussione la nostra legittimità ad essere forza di governo. L’altro lato della tenaglia è costituito da alcune parti dei movimenti che hanno tentato l’operazione opposta: visto che abbiamo partecipato alla stesura del programma dell’Unione, e siamo pronti ad entrare nel governo del paese, sarebbe compromesso il rapporto fra Rifondazione e i movimenti. In entrambi i casi si cerca di minare la credibilità di Rifondazione comunista. Questa tenaglia, però, si è man mano smontata.
• Come ci siete riusciti?
Non mancando a nessun appuntamento promosso dai movimenti, fino alla manifestazione pacifista di Roma di sabato 18 marzo. Mentre eravamo in piazza abbiamo anche lavorato a costruire il programma dell’Unione e a far entrare nelle linee guida del prossimo governo l’apporto dei movimenti e le loro istanze riformatrici. Tuttavia questa manovra — che ha come obiettivo quello di porre Rifondazione come cerniera tra i movimenti e l’azione riformatrice del governo — ha fatto sì che potessero crescere su questo terreno iniziative come quella della Rosa nel pugno.
• Un competitore inaspettato?
La Rosa nel pugno ha scelto come elemento distintivo la bandiera della laicità, anche perché la sua collocazione nell’Unione rendeva troppo ingombranti caratterizzazioni precedenti, in particolare quelle dei radicali a favore della guerra in Iraq, contro l’articolo 18, o quelle, più in generale, a favore delle politiche neoliberiste. Una collocazione del tutto incongrua con l’impianto complessivo dell’Unione. Occultando questo elemento, che rendeva difficile il suo appeal a sinistra, ha alzato la bandiera laica, un terreno che noi abbiamo praticato lungamente come quando abbiamo fatto parlare ad un nostro incontro il giovane che aveva contestato Ruini e la sua invasione in campo politico. E ancora: il nostro sostegno convinto ai Pacs, e non solo a una generica legge contro le discriminazioni sessuali, nasce dal lungo rapporto con la comunità Glbt (gay, lesbiche, bisex, transgender). La Rosa nel pugno ha utilizzato la discussione sul programma dell’Unione per fare apparire noi disponibili ad un compromesso e loro no. Laddove, con tutta evidenza, il compromesso è accettato da tutti perché tutti abbiamo firmato il programma. Noi abbiamo lavorato per far sì che nel programma comunque entrasse il problema dei diritti alle unioni civili, che invece le posizioni moderate dell’Unione tendevano ad espellere. Se ciò fosse accaduto al prossimo Parlamento sarebbe stato impedito di legiferare su questi temi.
• Ci saranno margini di trattativa per arrivare a una legislazione simile a quella degli altri paesi europei?
Penso di sì. Invece di promuovere un conflitto ideologico al solo fine di distinguersi, sarebbe meglio partire dal testo dell’Unione, consapevoli però dell’elemento di arretramento costituito dal passaggio dal riconoscimento delle unioni di fatto al riconoscimento dei diritti delle singole persone che ne fanno parte. Il compromesso ha però un punto importante di cultura civile, quello secondo cui le unioni sono definite non sulla base del genere dei componenti né sulla base degli orientamenti sessuali, bensì sulla stabilità e il riconoscimento della sfera affettiva. Partiamo da qui e facciamo in modo, come chiedono i movimenti, che vengano riconosciuti i diritti all’eredità, alla reversibilità della pensione, alla cura e all’assistenza in caso di malattia, alla voltura del contratto d’affitto. Se, invece di una crociata, individueremo un terreno in cui la forza di argomentazione dei movimenti può essere messa a frutto, avremo raggiunto un importante risultato.
• È d’accordo a introdurre, accanto a quella cattolica, l’ora di religione islamica nelle scuole?
Bisogna aprire un grande dibattito nel paese per le identità di un’Europa che sta diventando multietnica e multi-religiosa. La laicità verso cui tendiamo è quella della convivenza tra credenti e non credenti e tra credenti delle grandi religioni monoteistiche del Mediterraneo, ma non solo di queste. Invece di immaginare una specie di patchwork, in cui ognuno si prende la sua ora di religione, dobbiamo andare verso il superamento dell’idea di catechizzazione, non fosse altro che per questo riconoscimento della pluralità. La direzione giusta mi sembra l’insegnamento delle culture religiose, della storia delle religioni, propedeutica al dialogo con culture diverse dalla nostra.
• Rifondazione ha sempre evitato il dibattito regime sì, regime no. Adesso però è il momento di un bilancio di fine legislatura. Considera quelle degli ultimi giorni, compreso lo show all’incontro di Confindustria, eversioni o semplici colpi di testa?
Sarei molto attento a quello che è accaduto in questo scorcio di legislatura. Per quello berlusconiano ho sempre evitato di usare il termine regime perché lo considero troppo pregnante: in Italia si può ancora fare sciopero, manifestare, scrivere contro i potenti. In questi anni certamente molti elementi di restringimento della democrazia sono intervenuti, a partire dall’autonomia del Parlamento, della magistratura, del sindacato, degli enti locali. C’è stato, in fondo, un tentativo di desertificazione della società civile. Questa tendenza si è accompagnata all’esercizio delle politiche neoliberiste e quindi ad un ridisegno dei rapporti di classe a favore della rendita. Eppure la partita è aperta perché, come si vede, il contrasto è stato esercitato con grande forza, tanto che progressivamente queste parti della società sono passate all’opposizione. Il conflitto sociale, anche grazie ai movimenti, ha ripreso la sua autonomia. E il governo, in questa fase finale, prova a uscire da destra da questa crisi di consenso. L’ultimo atto è proprio l’intervento di Berlusconi nei confronti della Confindustria. Il suo è un impianto di estremismo populista, non inedito in Europa ma che di solito, quando si produce, è agito dall’opposizione. Lo slogan più affine all’estremismo populista è il classico “governo ladro”. Qui il paradosso è che il populismo viene attivato dallo stesso governo ladro.
• Cosa sarà la Cdl del prossimo futuro?
Questo estremismo populista dice come sarà la loro opposizione, e ne indica il pericolo, se l’Unione vincerà le elezioni. Ma ancora di più dice quanto sarebbe devastante se, per una malaugurata ipotesi, dalle urne venisse confermata l’attuale maggioranza. In questo caso i prossimi cinque anni non sarebbero una proiezione lineare di quello che c’è stato. Assisteremmo ad una precipitazione continua, alla fine della quale ci troveremmo con un’Italia che esce dall’Europa per diventare una provincia degli Stati Uniti.
• Le notizie francesi confermano la possibilità dei movimenti di cambiare le politiche liberiste dei governi?
Questo movimento ha avuto una lunghissima incubazione: è cominciato a Seattle mettendo in discussione la natura stessa della globalizzazione capitalistica, è proseguito in tutto il mondo con le lotte sindacali e sociali contro la disoccupazione o contro la Bolkestein, una direttiva che era un monumento alla precarietà. Ma indubbiamente, con la Francia, si fa un salto di qualità perché è una generazione intera che si batte contro una precarietà ormai acquisita come la cifra, il codice, del lavoro e del non lavoro del capitalismo.
• Il modello europeo è in crisi?
Sì, assistiamo ad una trasmissione del modello americano del lavoro, inteso come ventre molle della società a cui togliere identità e senso. Nel Novecento l’asimmetria di potere tra operaio e padrone, sfruttato e sfruttatore, veniva colmata dalla coalizione, dal sindacato. E la precarietà, che è anche il modo per mettere in discussione l’unitarietà dei contratti, è in radice il tentativo di dissolvere proprio il principio della coalizione e imporre la solitudine al lavoratore, renderlo ricattabile. I giovani francesi si riconoscono in una condizione che è la spia di una condizione umana più generale in questa fase storica del capitalismo. E perciò rivendicano la necessità elementare di abbattere la precarietà del lavoro.
• Uno dei primi impegni del nuovo governo, Prodi lo ripete spesso, sarà ridurre la precarietà. l’obiettivo è una flessibilità più tutelata o il lavoro a tempo indeterminato?
Quello che c’è scritto nel programma è importante e, al di là delle singole interpretazioni, non penso che possa essere un punto su cui praticare mediazioni. Non vorrei che per superare la legge 30 si trovasse l’ispirazione nel pacchetto Treu, semplicemente dagli anni Novanta si è prodotto un cambiamento profondo nel mondo del lavoro. Quando quella legge fu approvata si pensava che la globalizzazione fosse un fattore dinamico e progressista. Poi abbiamo verificato come quel processo ha aperto la strada alla precarietà. Iniziamo a ragionare sulla mappa della realtà e il programma dice, giustamente, che oltre al superamento della legge 30, si deve procedere verso la riconquista della assoluta centralità del contratto a tempo indeterminato. Per farlo si procederà eliminando quelle figure più esposte al rischio di precarietà, e aumentando il costo dei contratti atipici affinché non siano più convenienti del contratto a tempo indeterminato. Questa è una piattaforma comune che incontra anche molte delle domande che stanno facendo i giovani francesi.
• Addio quindi alla flessibilità?
La discussione sul lavoro nella società rimane aperta, ma trascende il programma di governo. Mi piacerebbe fare una discussione su che cosa si intende per flessibilità, perché quello che io ho visto finora è solo un aumento della dipendenza dei lavoratori al mutevole rapporto tra impresa e mercato. Ci avevano detto che i diritti della persona sarebbero stati accresciuti da una possibilità di controllo e di scelta anche su diversi moduli di orario. Ma di tutto questo, francamente, non ho visto nulla.
• In Danimarca e in Olanda esiste una flessibilità che dà tutele al lavoratore. Possibile che quei modelli non possano essere imitati?
È vero che in Danimarca c’è una possibilità maggiore di licenziamento, ma chi è licenziato percepisce un’indennità di disoccupazione che sta tra l’80 e il 90 per cento della retribuzione. Ciò è possibile perché in Danimarca si resta fuori dal mercato del lavoro per due, al massimo tre mesi. Ma in Italia, dove abbiamo regioni con una disoccupazione al 25 per cento e il 40 per cento di disoccupazione giovanile, dove va chi perde il posto di lavoro? E come si fa a erogare per un tempo lunghissimo un’indennità del 90 per cento del salario? In un paese che tende al pieno impiego e dove l’uscita dal mercato del lavoro è brevissima, è evidente che la flessibilità assume caratteri diversi.
• Prodi ha concluso il faccia a faccia televisivo usando la parola felicità. Una nuova categoria della politica?
Nuova non tanto, visto che i padri costituenti americani l’avevano scritta nella Costituzione. È, semmai, una citazione. La politica dovrebbe avere il compito molto ambizioso di determinare le condizioni perché donne e uomini possano accedere al loro percorso di felicità. Senza tuttavia che sia il compito della politica quello di raggiungerne l’obiettivo.
• All’incontro della Sinistra europea ha proposto di rivedere molte categorie concettuali del passato, tra cui anche quella di comunismo. Una nuova svolta?
Tutti i grandi termini del Novecento sono logorati: comunismo, socialismo, liberalismo, democrazia. Ma in fondo il socialismo, come idea di trasformazione della società capitalista, tra tutti quelli ammaccati è quello che se la cava meno peggio. Quando parlo della necessità del socialismo del XXI secolo, affermo l’idea di un futuro che non può fare a meno della critica del capitalismo del nostro tempo. Il debito nei confronti di Marx è ineliminabile e sono polemico con l’abbandono della sua teoria da parte della sinistra maggioritaria. Marx è necessario ma non sufficiente. Il socialismo del XXI secolo, l’ho chiamato così per segnare una discontinuità, non abbandona il tema dell’eguaglianza, senza la quale non esiste civiltà, ma deve riflettere contemporaneamente sul tema della libertà che nella nostra storia è rimasto a volte oscurato. Le nozioni di classe, sfruttamento, alienazione non possono essere abbandonate: sono necessarie ma, anche qui, non sufficienti. Il socialismo del XXI secolo è questa idea per cui al centro, lo dico provocatoriamente, non c’è il lavoro, ma ci sono le lavoratrici e i lavoratori. La centralità del lavoro non consentirebbe i nessi, laddove invece la centralità di lavoratrici e lavoratori è aperta alle connessioni di genere, ai temi dell’orientamento sessuale e della lotta alle discriminazioni. Il tema della persona, del rapporto con la natura, del rapporto tra i generi ci costringono ad un passo ulteriore della ricerca. Questo riguarda la cultura politica.
•[D·15]• Come si riflette sull’organizzazione della politica?
Bisogna uscire dall’idea monolitica che per costruire un’impresa comune o appartieni a un partito o sei fuori. Bisogna mettere il partito in un contenitore più grande e aperto. Perché coloro che, come noi, si sono proposti di rifondare un partito comunista, devono continuare la loro opera mettendosi in relazione con chi non pensa che sia necessario e utile un partito, necessario e utile chiamarsi comunista, necessario e utile pensare a una rifondazione. Penso alla costruzione di un nuovo soggetto politico che deve partire dal riconoscimento di queste diverse esperienze per farle vivere in una sorta di assemblea allargata che ci comprenda. La non violenza è una scelta di fondo, di ricollocazione della politica, e di noi nella politica e nella società. Una scelta che è nata, per citare gli zapatisti, attraverso un “camminare interrogandosi”, a partire dall’esperienza del movimento di questi anni, da Genova in poi. È evidente che questa ricerca è debitrice di tante e tanti che hanno esplorato questo terreno prima di noi. Sia sul piano dell’esperienza pratica che di quella teorica. Questi debiti vanno riconosciuti esplicitamente perché c’è bisogno ancora di progredire molto nell’elaborazione della ricerca.
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ANNOTAZIONI E SPUNTI
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•[A·0]• «I radicali hanno alzato la bandiera della laicità […]»: questo passo dell’intervista, riportato anche nel testo evidenziato (in 4ª pagina) esplicita il senso del titolo ‹I veri laici siamo noi›. •[A·1]• «Marx è necessario […] ma non sufficiente»: a questa frase farà dichiaratamente riferimento Fagioli nel suo articolo intitolato appunto ‹Marx necessario ma non sufficiente› pubblicato in data 28/4/2006 su “Left” n. 16 (qui).
•[D·15]• Nella risposta: «[…] questa ricerca è debitrice di tante e tanti che hanno esplorato questo terreno prima di noi», l’affermazione è del tutto generica, ma si presta ad essere interpretata anche in senso più specifico.
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